Sempre più spesso i dipendenti ricevono messaggi WhatsApp di lavoro fuori orario, con richieste o comunicazioni che invadono i momenti di riposo. Ma il lavoratore è obbligato a rispondere anche dopo la fine del turno? Quali sono i limiti posti dalla legge e quali tutele effettive esistono?
In questa guida analizziamo la normativa, i principi sulla disconnessione digitale, gli aspetti legati alla privacy e le buone pratiche per evitare conflitti.
In Italia non esiste una norma generale che vieti al datore di lavoro di inviare messaggi fuori orario o che obblighi il lavoratore a rispondere, ma alcune disposizioni delineano tutele significative.
Con la legge 61/2021 è stato introdotto il diritto alla disconnessione per chi lavora in modalità agile, che garantisce al dipendente la possibilità di non restare costantemente connesso e di godere di reali tempi di riposo, senza conseguenze sul piano retributivo o disciplinare. Già la legge 81/2017 imponeva che negli accordi di lavoro agile fossero regolati tempi di riposo e modalità tecniche per assicurare la disconnessione.
A questo si affiancano le regole sui controlli a distanza contenute nello Statuto dei lavoratori (art. 4), che vietano un monitoraggio invasivo delle attività tramite strumenti tecnologici, nonché gli obblighi di tutela dei dati personali previsti dal GDPR. Va ricordato inoltre che in Parlamento sono stati presentati disegni di legge per vietare in modo espresso le comunicazioni fuori orario, ma al momento si tratta solo di proposte e non di norme vigenti.
Se non è previsto un obbligo di reperibilità nel contratto di lavoro, nel contratto collettivo o in un accordo aziendale, il lavoratore non è tenuto a rispondere a WhatsApp fuori orario. Diverso è il caso in cui sia stabilita una reperibilità retribuita: in quella fascia di tempo il dipendente deve garantire la propria disponibilità. Fuori da queste ipotesi, i messaggi ricevuti restano a discrezione del lavoratore.
Quando però le richieste diventano frequenti e pressanti, possono configurare una violazione dei principi di correttezza e del rispetto dei tempi di riposo. In situazioni simili è opportuno segnalare il problema in azienda e, se necessario, rivolgersi a un avvocato per valutare strumenti di tutela.
Un altro tema delicato riguarda l’uso di applicazioni private per finalità lavorative. Il datore di lavoro non dovrebbe imporre al dipendente l’utilizzo del proprio numero personale per comunicazioni di servizio, se non nell’ambito di una policy chiara e con adeguate garanzie sul piano della privacy. Il trattamento dei dati deve rispettare il principio di minimizzazione e non può trasformarsi in uno strumento di controllo indiretto dell’attività.
Anche sotto il profilo probatorio, i messaggi WhatsApp possono avere valore in giudizio, ma ciò non legittima una raccolta o un monitoraggio indiscriminato. È quindi preferibile che le aziende utilizzino canali ufficiali e strumenti aziendali dedicati, lasciando le chat private al di fuori della sfera lavorativa.
Per evitare fraintendimenti è utile che aziende e dipendenti disciplinino chiaramente il tema delle comunicazioni fuori orario. Gli accordi o le policy interne dovrebbero prevedere le fasce di disconnessione, stabilire quando scatta la reperibilità e con quali indennità, indicare i canali di comunicazione consentiti e fornire un’adeguata informativa privacy. In questo modo si riduce il rischio di conflitti e si creano regole trasparenti per entrambe le parti.
Dal lato dei lavoratori, può essere utile impostare messaggi automatici di cortesia per spiegare che le comunicazioni ricevute dopo il turno saranno lette al rientro, o chiedere formalmente un aggiornamento dell’accordo di smart working affinché sia disciplinata la disconnessione. Le aziende, invece, dovrebbero evitare di utilizzare numeri personali, formare i responsabili su un uso corretto degli strumenti digitali e definire procedure di emergenza precise, così da non abusare dei canali informali.
Il tema delle comunicazioni di lavoro fuori orario non si esaurisce nella normativa sullo smart working. Alcuni contratti collettivi nazionali prevedono regole precise su reperibilità e indennità, disciplinando le fasce di riposo e riducendo così i margini di incertezza. Anche la giurisprudenza ha più volte richiamato l’importanza di garantire al lavoratore tempi effettivi di recupero psico-fisico, collegando la disconnessione alla tutela della salute e alla prevenzione dello stress lavoro-correlato.
A livello europeo, il Parlamento UE ha invitato gli Stati membri a introdurre un diritto alla disconnessione valido per tutti i dipendenti, non solo per chi opera in smart working. L’Italia si è mossa in questa direzione solo parzialmente, ma il dibattito politico e sindacale è molto attivo e potrebbe portare a una disciplina più ampia nei prossimi anni.
In attesa di un intervento legislativo organico, il consiglio pratico resta quello di verificare il proprio CCNL e di inserire clausole di disconnessione chiare negli accordi individuali, così da tutelare fin da subito il diritto a tempi di riposo reali e non negoziabili.
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