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Sentenza dichiarativa di fallimento: presupposti e opposizione

La sentenza dichiarativa di fallimento può essere emessa da un tribunale su istanza delle parti interessate. Per fallire sono necessari, però, alcuni presupposti oggettivi e soggettivi. In ogni caso è possibile opporsi alla sentenza, vediamo in quale modo.

Negli ultimi anni, a causa della forte crisi economica che ha colpito anche il nostro Paese, molte realtà aziendali si sono trovate a fare i conti con tematiche inerenti al recupero crediti e alle procedure fallimentari, molto più frequentemente rispetto al passato.

Non sempre però ci sono idee chiare in merito, in modo particolare non tutti sanno che per fallire ci devono essere dei requisiti particolari, e che il titolare può essere responsabile personalmente solo in alcune situazioni. Ad esempio se si tratta di una srl, i vari soci rispondono solamente in base al capitale investito in azienda, e non con il patrimonio individuale.

Ad ogni modo, la sentenza dichiarativa di fallimento può essere contestata, se ritenuta non corretta dall’interessato, rispettando la scadenza prevista dalla legge, come vedremo a breve.

Cos’è una sentenza dichiarativa di fallimento?

La sentenza dichiarativa di fallimento, ora definita come “liquidazione giudiziale”, secondo la nuova legge delega del Governo, viene emanata da un Tribunale, su istanza di alcune parti che hanno degli interessi specifici. Si tratta di un atto complesso che ha il compito di disciplinare la fase di liquidazione tenendo in considerazione gli interessi dei vari creditori.

Per fare ciò è necessario stabilire una data precisa durante la quale analizzare lo stato passivo dell’azienda, consultando vari documenti quali bilanci, elenco dei creditori, scritture contabili e fiscali per individuare il modo migliore di agire.

In situazioni di questo tipo l’azienda deve uscire dal mercato, quindi deve interrompere la propria attività produttiva o di servizi, e l’imprenditore viene sollevato dal proprio incarico.
I beni aziendali vengono amministrati dal cosiddetto curatore fallimentare, nominato dal tribunale, con il compito di trovare le risorse utili per pagare tutti i creditori. Solitamente si tratta di un ruolo ricoperto da professionisti quali avvocati, manager, commercialisti o ragionieri. 

Non tutti, comunque, possono fallire, dato che ci devono essere particolari requisiti di natura oggettiva e soggettiva. Inoltre, ci deve essere una precisa istanza di fallimento di una o più parti interessate per potere procedere.

Lo scioglimento e la liquidazione aziendale prevedono precise conseguenze per i soci o per il titolare, quindi è bene comprendere in quali casi si rischia una procedura di questo tipo. 

Si tratta, comunque, di una situazione limite, che si può evitare adottando delle misure preventive, tra le quali:

  • accordarsi con i vari creditori, ovviamente se si ha la possibilità economica per farlo
  • presentare un concordato preventivo, cioè un piano per saldare almeno la metà dei debiti
  • effettuare una ristrutturazione dei debiti

I presupposti del fallimento

Prima di analizzare le modalità per potersi opporre alla decisione del giudice, è opportuno sottolineare in quali casi è possibile fallire.

Innanzitutto si tratta di una procedura alla quale possono essere sottoposte soltanto le attività commerciali, quindi inerenti a:

  • produzione dei beni e servizi
  • intermediari per la circolazione di beni, come il commercio all’ingrosso
  • trasporti via terra, acqua ed aria
  • attività bancarie o assicurative
  • aziende che svolgono attività ausiliarie per le precedenti, come la pubblicità

In modo particolare il fallimento può riguardare gli imprenditori che hanno l’obbligo di iscriversi nel registro delle imprese, come sottolineato dall’art, 2195 del codice civile.
I lavoratori autonomi, gli enti pubblici e le associazioni senza scopo di lucro sono escluse. 

Esistono inoltre i cosiddetti “piccoli imprenditori”, cioè imprese con una struttura limitata che negli ultimi 3 anni:

  • hanno avuto un attivo inferiore a 300 mila euro annuale
  • hanno avuto ricavi inferiori a 200 mila euro annuali
  • hanno avuto debiti inferiori a 500 mila euro in totale

Oltre ai presupposti soggettivi che abbiamo appena elencato, è necessario che si verifichino anche quelli oggettivi, ovvero lo stato di insolvenza.

Si tratta di una situazione particolare nella quale l’azienda non riesce più a soddisfare le obbligazioni che ha contratto, in modo regolare. 

Sebbene la legge non specifichi in modo approfondito in quali casi si può agire, i giudici hanno individuato una serie di sintomi in grado di rilevare per tempo una situazione vicina al fallimento. 

In particolare:

  • impossibilità di pagare i debiti scaduti, superiori a 30 mila euro
  • patrimonio inconsistente, che non fornisce garanzia ai creditori

Sentenza dichiarativa di fallimento: chi può chiederla?

La sentenza dichiarativa di fallimento, può essere emanata da un giudice, dopo una precisa richiesta di uno o più soggetti interessati. Ma chi può presentare l’istanza di fallimento?

Le norme di riferimento prevedono che il ricorso possa essere effettuato da chiunque abbia degli interessi, quindi:

  • l’azienda stessa
  • i creditori, se il totale dei debiti è superiore a 30 mila euro
  • un Pubblico Ministero, se l’insolvenza viene scoperta durante un processo penale, collegato alla diminuzione fraudolenta dell’attivo o alla figa dell’imprenditore

Dopo avere ricevuto la richiesta, il tribunale, in composizione collegiale, emette la sentenza. Si tratta di un procedimento in genere veloce, contro la quale è sempre possibile effettuare un reclamo in Corte d’Appello.

Opposizione a una sentenza dichiarativa di fallimento

Dopo avere visto in quali casi una realtà aziendale può fallire, è chi può effettivamente fare ricorso, vediamo ora come effettuare un reclamo, ovvero una opposizione al fallimento.

Innanzitutto va detto che tale diritto appartiene a tutti i soggetti interessati, cioè coloro che possono subire degli effetti a seguito del fallimento. Ovviamente tale opzione non è concessa a chi ha fatto l’istanza di fallimento. 

In particolare può accadere che, alcuni creditori abbiamo l’interesse di opporsi dato che altrimenti non possono iniziare azioni esecutive individuali, o acquisire diritti di prelazione. 

Anche il coniuge del fallito può fare reclamo, dato che sono coinvolti i suoi diritti in merito al patrimonio in comune. 

L’impugnazione deve essere fatta presso la Corte d’Appello, entro 30 giorni dalla data di notifica se si tratta dell’imprenditore, oppure dalla data di iscrizione nel registro delle imprese, per gli interessati. 

Non deve essere fatto un atto di citazione alla controparte, come succede di solito, ma un reclamo al giudice. 

Dopo avere esaminato il caso, la Corte emette una nuova sentenza, contro la quale è possibile agire in Cassazione, entro 30 giorni dalla notifica.

In caso di opposizione la sentenza dichiarativa di fallimento è provvisoriamente esecutiva, e i suoi effetti sono nulli soltanto in caso di revoca. In alcuni casi, comunque, la Corte d’Appello può sospendere la liquidazione dell’attivo, totalmente o in parte.

Tale opzione viene valutata di caso in caso dal giudice, per garantire ai creditori di potere recuperare i crediti, nel migliore modo possibile.

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