Il divieto di licenziamento è previsto dalla legge per tutelare i dipendenti in periodi particolari della loro vita e durante significativi cambiamenti aziendali. Vengono considerati nulli i licenziamenti effettuati senza rispettare le norme in questione.
La Costituzione Italiana afferma fin dal primo articolo che il nostro Paese è una Repubblica fondata sul lavoro, e tale principio viene supportato da varie leggi, che hanno l’obiettivo di proteggere i lavoratori, soprattutto nei momenti più delicati della loro vita.
Quindi, sebbene la situazione lavorativa attuale in Italia non sia certo delle migliori, va sottolineata la presenza di tutele per evitare che un soggetto possa subire delle ingiustizie. In modo particolare sono presenti diverse norme volte a imporre un divieto di licenziamento a fronte di alcune specifiche situazioni, come ad esempio il congedo matrimoniale, la maternità, la malattia, quando si verifica un trasferimento aziendale, ecc.
Come vedremo il datore di lavoro, quando esiste un divieto esplicito, può agire solamente se sussistono alcuni requisiti particolari, in caso contrario il provvedimento viene considerato nullo, e sono previste sanzioni.
Il matrimonio è indubbiamente un momento molto importante nella vita di una persona, per questo motivo la legge tende a tutelare maggiormente gli interessi di chi tende compiere tale passo.
Ciò avviene anche per quanto riguarda il lavoro, è previsto infatti il cosiddetto congedo matrimoniale, per occuparsi principalmente della propria vita privata.
Detto ciò risulta evidente che, per l’azienda non si tratta di una scelta piacevole, visto che il lavoratore deve essere sostituito da altri. L’intervento del legislatore è avvenuto proprio per evitare ripercussioni negative in un periodo importante per la vita dell’individuo.
Non è possibile licenziare un lavoratore dal momento della pubblicazione del matrimonio fino a un anno dopo la celebrazione. Tale regola, però, è valida solo per quanto riguarda le lavoratrici.
Lo stesso discorso vale per le neo-mamme, protette dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del figlio. In questo caso la tutela è estesa anche al padre che intende fruire del congedo di paternità o parentale.
Il diritto italiano si preoccupa anche della salute dei propri cittadini, come espressamente sancito dall’art. 32 della Costituzione:
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Per questo motivo, oltre a prevedere comunque una retribuzione durante il periodo di malattia, a carico dell’Inps, al datore di lavoro viene imposto di non licenziare il lavoratore. Tale divieto è valido per tutto il periodo di comporto, cioè per la durata prevista nei specifici contratto collettivi.
Nell’art. 2110 del codice civile, possiamo infatti leggere:
In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative]non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equitàNei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità.
Nel nostro Paese vengono promosse le attività sindacali, si tratta infatti di uno dei diritti protetti anche costituzionalmente.
Non avrebbe senso, però, da una parte incentivare la libertà di manifestare la propria opinione, e dall’altra permettere all’azienda di punire i dissidenti.
E’ stato posto quindi il divieto di licenziare i dirigenti di rappresentanze sindacali RSA e RSU per tutto il periodo dell’incarico fino a un anno dalla cessazione, e per 3 mesi per chi non è stato eletto.
Di conseguenza, non è consentito nemmeno lasciare a casa un dipendente affiliato ai sindacati, che decide di partecipare ad uno sciopero.
Quando un’azienda viene venduta o un ramo viene ceduto ad altri, in molti si chiedono quali sono i rischi per i lavoratori.
In particolare spesso ci sono dei dubbi in merito al rischio di perdere il lavoro in seguito alla cessione dell’attività a nuovi proprietari.
L’art. 2112 del codice civile chiarisce la questione affermando che:
In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano
Quindi, tutti i dipendenti mantengono i loro diritti e il proprio posto in azienda.
Il datore di lavoro, può dimostrare che la decisione di licenziare un lavoratore è legittima, seppur in presenza di divieti, se:
In tutti gli altri casi, il dipendente può impugnare il provvedimento, contestando la decisione del datore di lavoro.
L’azienda, quindi, rischia di essere condannata, in sede civile, a reintegrare il lavoratore e a versare a quest’ultimo tutti gli stipendi che gli spettavano di diritto, dal momento in cui è stato licenziato.
A ciò va aggiunta anche una sanzione amministrativa da un minimo di 516 euro a un massimo di 1582 euro.
Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, viene considerato illegittimo il licenziamento effettuato in mancanza di una giusta causa o di un giustificato motivo, sia soggettivo che oggettivo.
Le tutele dei lavoratori, ad ogni modo sono cambiate con l’entrata in vigore del Decreto legislativo 23/2015, conosciuto anche come Jobs Act. In sostanza, sono previsti regime di tutela differenti a seconda che il lavoratore sia stato assunto prima o dopo il 7 marzo 2015.
Chi ha sottoscritto un contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015:
Chi è stato assunto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, viene tutelato dalla norme introdotte dal decreto legislativo 23/2015, ovvero dal Jobs Act:
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