Il fallimento di una ditta individuale avviene quando si verifica uno stato di insolvenza tale da non riuscire a pagare i propri creditori. Non tutti, però, possono fallire in quanto è necessario avere alcuni requisiti. Ma cosa avviene dopo? Quali sono le conseguenze? Scopriamo insieme.
In un periodo storico caratterizzato da una forte crisi economica, si sente parlare sempre più spesso di fallimenti aziendali, causati dall’incapacità di adempiere alle varie obbligazioni prese con altri soggetti.
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Quando i debiti sono molto alti e l’attività non riesce ad avere i profitti sperati, si cercano innanzitutto degli accordi con i vari creditori, che se non vanno a buon fine potrebbero determinare una istanza di fallimento, cioè una procedura particolare per riuscire a recuperare le somme utili dai beni aziendali.
Non tutti però possono fallire, come vedremo è necessario avere alcuni particolari requisiti oggettivi e soggettivi. Quindi, ci può essere un fallimento di una ditta individuali sono in determinati casi.
Vediamo, perciò di fare chiarezza in merito, analizzando anche le conseguenze negative che potrebbero esserci per il patrimonio personale dell’imprenditore.
La ditta individuale è la forma giuridica più semplice e meno costosa per aprire un’attività senza troppi adempimenti, infatti è sufficiente aprire una partita iva e registrare l’attività presso la Camera di Commercio.
L’imprenditore in questo caso rappresenta non solo il titolare ma anche l’unico responsabile e promotore dell’iniziativa aziendale.
Solitamente viene utilizzata nelle fase iniziale di un’attività, dato che non è necessario investire una quantità minima di capitale per partire.
Risulta subito evidente che anche i rischi connessi alla ditta sono direttamente collegabili alla figura dell’imprenditore. Ciò significa che tutti il suo patrimonio personale può essere coinvolto.
In caso di insolvenza, infatti, possono essere pignorati i beni personali, per potere pagare i creditori.
Possiamo dire, quindi, che non si tratta della forma giuridica migliore per svolgere un’attività, ma la più flessibile e la meno costosa. In genere non è indicata per le attività che richiedono grandi investimenti.
Anche le imprese familiari o coniugali sono delle ditte individuale, nelle quali oltre al titolare partecipano dei familiari, come ad esempio il coniuge in comunione dei beni, o i parenti entro il terzo grado. In questo caso gli utili devono essere equamente ripartiti anche se la responsabilità rimane del titolare.
Questa forma giuridica ha alcuni vantaggi, ad esempio:
Gli svantaggi invece sono:
Le ditte individuali devono sempre essere iscritte al registro di commercio, sono invece escluse da tale obbligo le libere professioni, come ad esempio un avvocato.
Il fallimento di una ditta individuale, può comportare gravi conseguenze per il titolare, dato che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente la sua responsabilità è illimitata, quindi per pagare i creditori possono essere pignorati i suoi beni personali.
Lo scopo del procedimento è quello di evitare la chiusura dell’impresa senza prima avere saldato tutti i debiti. Infatti, devono essere elencati tutti i creditori e il relativo ammontare dovuto, per riuscire a saldare tutto il primo possibile, anche attraverso il patrimonio personale del responsabile. Può venire fatto, quindi, un pignoramento dei beni, per poi venderli all’asta e rivarne le cifre utile per coprire i debiti.
Per attivare la procedura fallimentare, comunque, devono esserci alcuni presupposti, dato che non tutti possono fallire.
In modo particolare sono soggetti a tale strumenti giuridico le attività commerciali, ma sono esclusi i cosiddetti piccoli imprenditori, cioè coloro che in tre anni di esercizio hanno maturato:
Possono fallire quindi società di persone, individuali, o di capitali che superano tali cifre.
In una società di capitali, però, i soci sono coinvolti solo in merito alla quota che hanno investito nell’attività, dato che la loro responsabilità è limitata.
Inoltre, l’azienda deve trovarsi uno stato di insolvenza, cioè non deve essere in grado di soddisfare le proprie obbligazioni in modo regolare.
Con il decreto legislativo 169 del 2007 è stato stabilito che l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati deve essere superiore a 30 mila euro per potere effettuare una istanza di fallimento.
Se ci sono tutti i presupposti che abbiamo visto sopra, il procedimento viene attivato con lo scopo di garantire la parità di trattamento a tutti i creditori, e per evitare che il patrimonio venga sottoposto ad esecuzione. Il ricavato dalla vendita dei vari beni, viene infatti distribuito in modo equo per soddisfare i crediti.
L’iniziativa può essere presa dallo stesso imprenditore, da uno o più creditori o da un Pubblico Ministero, presentando un ricorso presso la cancelleria del tribunale competente.
In seguito le parti coinvolte vengono convocate per dare vita a un corretto contraddittorio. Con la sentenza viene fissata una data precisa durante la quale procedere con l’esame dello stato passivo. Il tribunale può stabilire un esercizio provvisorio dell’impresa se l’interruzione può determinare dei gravi pregiudizi, peggiorando la situazione.
La sentenza di fallimento di una ditta individuale comporta svariate conseguenze per il titolare ma anche per tutti i soggetti che vantano un credito.
Innanzitutto un imprenditore “fallito” non può usufruire dei propri beni, se non di quelli considerati indispensabili per la sua sopravvivenza e di quella dei familiari.
Ad ogni modo, raramente una attività individuale rientra tra le aziende che possono fallire, dato che solitamente si tratta di attività con grossi volumi come abbiamo visto prima.
In ogni caso, se la ditta ha diversi debiti, può subire delle azioni forzate dai creditori.
In particolare essi possono richiedere il pignoramento dei beni personali del titolare per potere recuperare ciò che gli spetta di diritto.
Un’alternativa può essere una dilazione rateale dei debiti, da concordare con l’interessato, per avere modo di reperire le somme utile entro il termine prefissato.
Ma, se dal punto di vista patrimoniale il fallito ha degli obblighi da rispettare, dal lato lavorativo non ha alcun impedimento, e può quindi avviare una nuova attività, diversa dalla precedente, senza utilizzare ovviamente i beni destinati a pagare i vecchi debiti.
Inoltre, può anche scegliere di abbandonare l’attività imprenditoriale per decidere di essere assunto come dipendente. In merito all’esperienza passata non ci sono pregiudizi dato che il fallimento della ditta individuale non rispecchia la condotta morale del soggetto, ma una difficile situazione economica che ha affrontato.
Allo stesso modo egli è libero di aprire nuovi conti correnti, dopo avere saldato i debiti contratti.
Concludendo, possiamo dire che il responsabile del fallimento di una ditta fallimentare, ha sempre la possibilità di rimettersi in gioco, dopo un iniziale periodo di difficoltà durante il quale viene privato di alcuni bene, senza intaccare comunque quelli essenziali, può rifarsi una vita come lavoratore autonomo o dipendente.
Una volta completata la procedura fallimentare, quando il debitore non è riuscito a consolidare tutti i debiti, il creditore ha diritto al rilascio di un attestato di carenza dei beni. Grazie a questo attestato, il creditore ha un titolo sul debito del debitore e sul fatto che quest'ultimo lo abbia effettivamente riconosiuto.
Grazie a questo documento, il creditore ha tempo 20 anni per fare nuovamente richiesta del saldo del debito nel caso in cui la situazione economica del debitore dovessere essere migliorata nel frattempo.
FONTI NORMATIVE
Decreto Legislativo 169 del 2007
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