La figura del collaboratore di giustizia è entrata oramai da tempo nell'immaginario comune, soprattutto in relazione a determinate fattispecie criminali. Ma chi è esattamente il collaboratore di giustizia?
Secondo la legge del nostro Paese, un collaboratore di giustizia è un soggetto che, essendo a conoscenza di informazioni relative ad un determinato fenomeno criminale, decide di collaborare con la Magistratura italiana.
Nel vocabolario quotidiano si utilizza spesso il termine "pentito", poiché in genere la conoscenza del fenomeno criminale gli è derivata proprio dall'averne preso parte o dall'aver interagito in maniera più o meno diretta con gli attori responsabili dei crimini. In questi termini, si può dire che i collaboratori di giustizia esistano da sempre, ma ufficialmente questa figura è stata istituita per legge a partire dagli anni '80 e '90.
Ripercorriamo dunque le tappe principali della nascita di questo soggetto chiave di numerosi importanti processi che si sono svolti e che tuttora si svolgono in Italia.
Questa prima legge rappresenta un punto di partenza fondamentale: essa sancisce infatti la possibilità di applicare degli sconti di pena a individui riconosciuti come terroristi, in cambio di una collaborazione con la giustizia. Viene così introdotto il concetto di "dissociazione", riferito appunto ai soggetti che decidono di prendere le distanze dall'associazione terroristica e di fornire informazioni utili a sgominare i gruppi dissidenti.
Un decisivo ulteriore passo avanti è rappresentato dal testo di questa legge, che normò ufficialmente la figura del collaboratore di giustizia o, più semplicemente, collaboratore. La legge venne formulata come conversione del D.l. n. 8 del 15 gennaio del 1991, emanato soprattutto grazie all'influenza di due personaggi rilevanti per il nostro Paese: Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti.
Il testo ha introdotto la possibilità per i pentiti, i testimoni di giustizia e per i loro familiari di fruire di un programma di protezione. Spesso infatti la scelta di deporre contro criminali od organizzazioni criminali implica l'esposizione a tentativi di ritorsione, che lo Stato ha cercato di contrastare al fine di preservare la possibilità di accesso alle informazioni fornite dai collaboratori.
Questa legge riprende quanto stabilito dalla precedente, al fine di apportare delle importanti modifiche. Viene preservata la possibilità di accesso a riduzioni di pena ed all'assegno di mantenimento erogato dallo Stato, ma vengono introdotti una serie di vincoli:
La norma descritta ha destato non poche perplessità, per alcuni i vincoli sanciti scoraggerebbero l'intenzione di dissociarsi dall'organizzazione criminale e di collaborare con la giustizia.
Sebbene il pentito presti di fatto una testimonianza dinnanzi alla legge, esistono delle sostanziali differenze fra questa figura e quella del testimone di giustizia.
Si può definire un testimone colui o colei che, a titolo di persona offesa da un reato o come persona informata dei fatti, decide di portare il proprio contributo trasmettendo le informazioni di cui è in possesso, che siano rilevanti ai fini di indagine o di giudizio. Si tratta di una definizione aperta, che comprende numerose tipologie di reato e che, proprio per questo, sancisce una prima differenza.
Se guardiamo infatti al pentito, in questo caso i delitti per i quali può prestare testimonianza e richiedere l'inserimento nel programma di protezione, riguardano specifiche categorie delittuose, come ad esempio i reati di mafia o terrorismo.
In secondo luogo, vediamo come il testimone, seppur coinvolto, non è autore o co-autore dei fatti criminali, ed è in genere animato dalla volontà di compiere quello che sente come il dovere di un cittadino.
La legge del 1991 prendeva in considerazione esclusivamente la figura del pentito, prevedendo come abbiamo visto delle speciali misure al fine di proteggerlo da ritorsioni legate alla sua decisione di allontanarsi dal crimine o dall'organizzazione criminale e di condividere le informazioni utili a sventare ulteriori crimini.
Pur rappresentando un importante passo avanti, questa legge estrometteva i testimoni dalla possibilità di accesso a forme di protezione similari, lasciandoli di fatto esposti ad azioni ritorsive.
Soltanto nel 2001 si è provveduto ad una modifica del testo, includendo ufficialmente il testimone di giustizia (art. 16 bis e 16 ter), cioè estendendo le forme di protezione anche a questi cittadini.
La vera e propria distinzione fra le due figure si avrà però solamente grazie alla legge n. 6 dell'11 gennaio 2018, specificatamente formulata per la tutela dei testimoni. Questa nuova disciplina prevede che l'individuo che ha deciso di fornire la propria deposizione, mettendo di conseguenza a rischio l'incolumità propria e dei familiari, possa accedere a misure riguardanti la tutela fisica, il sostegno economico, il reinserimento sociale e lavorativo.
Si stabilisce inoltre che le forme di tutela vadano modulate in base all'analisi di ciascun caso, ricorrendo all'ipotesi di trasferimento dell'individuo / nucleo familiare in altra località, solamente in situazioni particolari. L'obiettivo è infatti quello di garantire il più possibile un' "esistenza dignitosa", la quale implica la possibilità di seguitare a svolgere il proprio lavoro e le proprie attività, restare accanto ai propri familiari, alle proprie cose.
In linea di massima, si può affermare che la collaborazione sia prevista per tutti quei reati per i quali è previsto l'arresto come pena, quindi reati di una certa gravità. Più in dettaglio:
Come illustrato, le circostanze che prevedono la possibile presenza di pentiti, sono delitti di una certa portata che, spesso e volentieri, coinvolgono associazioni dotate di un'organizzazione capillare e diffuse su tutto il territorio nazionale ed extra nazionale. Si pensi alle associazioni di stampo mafioso: negli anni le cronache ci hanno restituito fatti estremamente gravi, atti di ritorsione violenta nei confronti di membri ed ex membri appartenenti a queste associazioni.
Indubbiamente la possibilità di ottenere sconti di pena, per reati che prevedono lunghi e spesso duri regimi detentivi, rappresenta uno sprone. Non sempre però si tratta della prima motivazione.
Abbiamo visto che la Legge prevede oramai una serie di tutele volte a proteggere il pentito e la sua famiglia, misure che nel tempo sono andate nella direzione di una "personalizzazione" sulla base delle situazioni di ciascun collaboratore. Non più e non solo il trasferimento della persona e dei diretti congiunti in località ritenute sicure, o il cambio di identità. In generale l'intento consiste nel cercare di garantire un'esistenza, per così dire, dignitosa, senza doversi necessariamente allontanare dai propri affetti.
A tal fine, sono previsti interventi di sostegno economico (alloggio, assegno di mantenimento, contributo al pagamento di spese sanitarie e legali, ecc...) oltre ad azioni volte al reinserimento sociale e lavorativo.
In determinate condizioni, la legge prevede la possibilità di revocare le misure di protezione ai collaboratori di giustizia. La situazione tipica che comporta tale revoca riguarda la commissione di ulteriori reati da parte del pentito a seguito dell'inserimento nel programma.
Più in generale, la revoca delle garanzie o la loro modifica è considerata legittima - a prescindere dall'accertamento in sede penale delle responsabilità - ogni qualvolta il soggetto venga meno agli obblighi previsti dall' art. 12 comma 2 della già menzionata legge n. 82 del 1991. L'interessato infatti, per poter accedere ai benefici derivanti dallo status di collaboratore, assume un impegno che viene considerato a tutti gli effetti un contratto pubblico, vincolante per ambo le parti per quanto concerne i reciproci diritti e doveri.
Tra i collaboratori di giustizia che possiamo affermare essere passati alla storia, c'è sicuramente Tommaso Buscetta. Definito dalle cronache "il boss dei due mondi" per via della sua latitanza in Brasile e del suo ruolo chiave fra la mafia siciliana e lo Stato, il suo personaggio è legato al celebre maxiprocesso celebrato a Palermo dal 10 febbraio 1986 al 30 gennaio 1992.
All'epoca imperversava una vera e propria guerra tra cosche, nell'ambito della quale erano stati commessi centinaia di omicidi tanto dei componenti di ciascuna fazione e dei loro familiari e, quanto ai danni delle figure istituzionali che cercavano di contrastare la mattanza.
In tale contesto nel 1983 viene arrestato in Brasile Tommaso Buscetta, latitante dopo essere sfuggito al regime di semilibertà già imposto in Italia.
Nelle carceri brasiliane, Buscetta incontrò Giovanni Falcone, giudice istruttore di quello che, di lì a pochi anni, sarebbe stato il primo grande processo per crimini di mafia nella storia del nostro Paese.
Già durante il viaggio che lo ricondusse in Italia, il boss manifestò l'intenzione di collaborare con la giustizia italiana e, a partire dal 1984. Tale intenzione sembrò essere motivata soprattutto dal desiderio di una vendetta ai danni della fazione dei Corleonesi, che nel corso delle già descritte faide, avevano ucciso numerosi parenti del boss, fra cui due figli non affiliati alle cosche.
Il ruolo di Buscetta si rivelò sin da principio essenziale nel costruire una visione, per così dire, "dall'interno" di Cosa Nostra. Il pentito fornì inoltre indicazioni rispetto a mandanti ed esecutori di stragi ed omicidi nel corso di una lunga confessione fatta direttamente a Giovanni Falcone.
A seguito delle sue dichiarazioni, progressivamente verificate dalle Autorità, Cosa Nostra scatenò una serie di pesanti ritorsioni nei confronti di tutti i collaboratori di giustizia e non solo.
Le testimonianze rese da Buscetta e, successivamente da altri pentiti coinvolti, furono determinanti per istruire il maxiprocesso, che si tenne in un' aula bunker costruita accanto al carcere dell'Ucciardone (Palermo) e che vide coinvolti ben 475 imputati.
Fonti legislative
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