Le vicende successorie nelle cosiddette famiglie naturali, non basate su matrimonio o su Unione civile fra persone dello stesso sesso, costituiscono da alcuni anni un tema molto dibattuto. Il nostro ordinamento offre delle tutele al partner superstite in caso di morte del convivente di fatto?
L'ipotesi della donazione cum moriar, si moriar e si praemoriar.
Ma proprio l’esplicito riferimento che la Legge Cirinnà fa alle parti di una Unione civile fa sì che, al contrario, restino totalmente escluse dalla disciplina successoria le parti eterosessuali di una convivenza di fatto.
Quest'ultima tipologia di famiglia, detta altrimenti convivenza more uxorio, non fondata sul matrimonio, viene altresì regolata dalla legge in questione.
Tuttavia, l’unica forma di tutela successoria prevista per i conviventi more uxorio è la previsione secondo cui, in caso di morte del partner proprietario della abitazione comune della coppia, il convivente superstite può continuare ad abitare l’immobile per due anni o per un periodo pari alla convivenza se questa è superiore a due anni, ma in ogni caso per un lasso di tempo non superiore a cinque anni.
A differenza, dunque, del rapporto coniugale e delle Unioni civili, che proiettano alcuni effetti patrimoniali oltre la morte, il rapporto posto in essere dai conviventi esaurisce i propri effetti con la cessazione della convivenza stessa.
Attualmente, dunque, l’ordinamento italiano lascia completamente sprovviste di una tutela dal punto di vista successorio le coppie di fatto.
Ed è più che auspicabile un intervento del legislatore in materia, volto a porre su un piano paritario le varie formazioni familiari che la nostra società conosce, senza alcun tipo di differenziazione.
Ancora di più se si considera che in molte normative estere viene spesso utilizzato l’inserimento nei contratti di convivenza di clausole che prevedano effetti giuridici destinati a prodursi dopo la morte di uno dei contraenti e a beneficio dell’altro, al fine di assicurare la tranquillità economica del partner superstite.
A ben vedere si tratta infatti di una ingiustificata disparità di trattamento.
E la discriminazione che tale vuoto normativo provoca non è aggirabile nemmeno attraverso la previsione di forme di successione all’interno del contratto di convivenza, che i conviventi possono sottoscrivere per regolare i rapporti patrimoniali ed economici fra loro.
Tali previsioni violerebbero, difatti, il divieto di patti successori, che è imposto dal nostro ordinamento.
I patti successori sono una categoria di contratti o atti che hanno come oggetto la successione di una persona non ancora defunta; il divieto è sancito dall’art. 458 c. c., che recita: “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”.
Ad oggi l’unica soluzione per le coppie conviventi, laddove il convivente di fatto voglia assicurare al proprio partner un adeguato trattamento successorio, è quella di ricorrere allo strumento del testamento: in questo modo uno o entrambi i conviventi di fatto possono nominare erede il proprio convivente e specificare la quota di eredità da destinargli.
Ma lo strumento testamentario in Italia incontra alcuni significativi limiti. In primo luogo il convivente può disporre a favore del partner soltanto della porzione rimasta disponibile dell’asse ereditario, una volta che siano state soddisfatte tutte le quote spettanti per legge ai cosiddetti eredi legittimari, i quali hanno sempre diritto ad una quota di eredità (si tratta ad esempio dei figli) ed hanno la preferenza rispetto agli eventuali altri eredi nominati nel testamento.
In secondo luogo, il testamento può sempre essere revocato usque ad vitae supremum exitum, ossia nel caso in cui, all’apertura della successione, si scopra l’esistenza di un altro testamento, successivo, che revoca il precedente.
Ci si può a questo punto chiedere con quali strumenti sia possibile soddisfare le esigenze dei conviventi more uxorio di assicurare al convivente superstite i mezzi di mantenimento. L’interesse in gioco è quello di poter operare trasferimenti di diritti che godano di due caratteristiche: dell’irrevocabilità e della operatività dal momento della morte del dante causa.
A ben vedere il primo dei due obiettivi potrebbe essere agevolmente conseguito tramite lo strumento della donazione, che però è un negozio giuridico destinato ad avere effetti durante la vita dei soggetti (negozio giuridico inter vivos) e non dopo la morte, e che quindi comporta la perdita immediata dei diritti che vengono trasferiti tramite dona.
Dall’altra parte la maggiore limitazione che gli atti inter vivos incontrano è il divieto di patti successori, che opera sia in caso di disposizioni contenute nei contratti di convivenza sia in atti come la donazione. Il secondo obiettivo può, invece, essere conseguito tramite testamento, che come abbiamo detto è invece un atto mortis causa, ossia che dispone per il tempo successivo alla morte del soggetto ma che, abbiamo visto, è un atto per sua natura revocabile e con cui è possibile disporre soltanto di una porzione dell’asse ereditario, quella rimasta disponibile.
Se è vero da una parte che la donazione sembra lo strumento che più si potrebbe avvicinare allo scopo richiesto, quella pura e semplice incontra troppi limiti.
Così, di recente, alcuni studiosi hanno individuato delle forme particolari di donazione, e si sono interrogati se queste possano soddisfare gli interessi successori delle coppie di fatto, senza incorrere nel divieto di patti successori e senza violare la legge. In particolare, sono state individuate la donazione cum moriar, la donazione si moriar e la donazione si praemoriar.
Ora, nella donazione cum moriar il termine iniziale di efficacia coincide, in effetti, con la morte del donante, così come la donazione si moriar è assoggettata alla condizione sospensiva della morte del donante e la donazione si praemoriar è sottoposta alla condizione risolutiva della premorienza del donante.
In relazione alla validità di queste tre ipotesi di donazione le opinioni non sono però pacifiche, ma al contrario occorre prendere atto dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale non ancora risolto.
Va anzi segnalato, che la possibilità di sottoporre gli effetti di una donazione alla morte del disponente viene negata da parte della dottrina e della giurisprudenza, le quali sostengono che una tale tipologia di donazione non si distingue da un patto successorio (se pure a titolo gratuito).
Premesso che è certamente vero che la donazione mortis causa è la donazione in cui la morte entra nel congegno casuale (donazione in vista della morte del donante), e che essa è nulla ex 458 c.c. perché viola il divieto di patti successori, la giurisprudenza è contrastante nell’affermane la validità o meno di tali particolari donazioni poiché da un lato c’è una produzione di effetti negoziali immediata, e non successiva alla morte, e il beneficiario acquista immediatamente una aspettativa giuridicamente tutelata; dall’altra parte si tratta pur sempre di una disposizione irrevocabile di propri beni per il tempo successivo alla morte (pertanto nulla).
Bisogna ricordare che la stessa Corte di Cassazione (Cass. 24 aprile 1987, n. 4053), seguendo una parte minoritaria della dottrina, ha affermato che le donazioni cum moriar o si premoriar concretizzano delle disposizioni successorie e sono quindi nulle perché in contrasto con il divieto dei patti successori.
Per parte della dottrina, e per altra parte della giurisprudenza, invece sarebbero valide le donazioni a termine e sotto condizione. In particolare a differenza che nei patti successori nelle donazioni qui considerate il donatario acquista immediatamente il diritto seppure a termine iniziale o sotto condizione, con una aspettativa legalmente tutelata.
La maggior parte della dottrina, avallata da altra giurisprudenza della Corte Suprema (Cass. 9 luglio 1976, n. 2619), ammette quindi la validità di tali fattispecie poiché rappresentano delle donazioni tra vivi con il tipico carattere dell’attualità dello spoglio: il donatario acquista immediatamente un diritto a termine iniziale o sotto condizione sospensiva, vale a dire una aspettativa legalmente tutelata, che gli consente di compiere atti conservativi (art. 1356, 1° comma, c.c.) e di disporre, sia pure sottoposto condizione, del diritto oggetto della donazione (art. 1357 c.c.).
Va altresì segnalata la tesi intermedia, che sostiene la validità solamente di alcune donazioni mortis causa.
In particolare c'è chi sostiene che, mentre la donazione sotto condizione sospensiva (si moriar e si praemoriar) produce effetti al momento della morte o premorienza ma gli effetti retroagiscono al momento della conclusione del negozio, quella sottoposta a termine iniziale (cum moriar) produce effetti a partire dal momento stesso della morte.
E' questa la tesi della validità della donazione sotto condizione e non di quella a termine.
Pertanto, in attesa di una risposta in tal senso da parte del legislatore o delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, non si può che auspicare chiarezza per una materia, oggi più che mai, tanto rilevante.
A cura di: Avv. Claudia Ruffilli
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