La Corte Costituzionale, riunitasi lo scorso 15 aprile, ha esaminato le questioni di legittimità sollevate in relazione all’“ergastolo ostativo” ossia al regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia e di contesto mafioso che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale.
Prima di analizzare la pronuncia della Corte, occorre meglio esaminare l’istituto e l’iter giurisprudenziale formatasi al riguardo.
L’ergastolo ostativo – introdotto nell’ordinamento penitenziario italiano all’inizio degli anni Novanta con il Decreto Legislativo n. 306/1992, dopo le stragi nelle quali furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – è regolato dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e stabilisce che le persone condannate per alcuni reati di particolare gravità, come quelli di criminalità organizzata, di terrorismo, di eversione, non possano essere ammesse ai cosiddetti “benefici penitenziari” né alle misure alternative alla detenzione.
Per queste persone è escluso l’accesso alla liberazione condizionale, la possibilità di lavorare all'esterno, ai permessi premio e alla semilibertà, all'affidamento in prova. Importante però tenere a mente che l'ergastolo ostativo non è sinonimo di 41 bis (noto come "carcere duro"), regime quest'ultimo che implica delle differenze sostanziali proprio inerenti la vita del detenuto all'interno delle mura carcerarie e l'isolamento non solo rispetto al mondo esterno ma anche rispetto ad altri detenuti.
In tutti i casi precedentemente descritti si parla di “fine pena mai” proprio in ragione delle forti limitazioni previste e della circostanza che gli anni di pena vengono scontati per intero in carcere.
La norma prevede che la perpetuità di questa pena detentiva possa essere vinta solo laddove il condannato collabori con la giustizia, in tal modo dando prova concreta del suo ravvedimento, della sua ferma volontà di voler abbondonare il circuito criminale, e, conseguentemente, della sua partecipazione al percorso rieducativo. Diversamente, la pena viene scontata per intero senza concessione dei benefici (neppure la richiesta di liberazione condizionale prevista dopo i ventisei anni per l'ergastolo non ostativo).
Pur avendo la stessa Corte di Cassazione - con la sent. n. 18206/2014 - manifestato dubbi circa la possibilità che l’ergastolo ostativo possa configurare un’autonoma tipologia di pena, nella pratica si identificano due categorie di ergastolo: l’ergastolo “comune” e l’ergastolo ostativo, che si differenziano proprio per il regime di esecuzione della sanzione.
Normalmente, per i soggetti che devono scontare una pena detentiva nelle forme dell’esecuzione intramuraria, è prevista la c.d. progressione trattamentale per consentire al reo un maggior contatto con l’esterno fino ad arrivare al termine della pena.
Agli ergastolani “comuni”, è consentito richiedere la liberazione anticipata ossia la riduzione di pena di 45 giorni a semestre di pena scontata se il detenuto ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione ex art. 54 ord. pen.
Ulteriori benefici sono i permessi premio di durata non superiore ogni volta a 15 giorni affinché il condannato possa coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro fuori dall’istituto penitenziario, a condizione che egli abbia tenuto regolare condotta e non risulti socialmente pericoloso, ma soprattutto che abbia espiato 10 anni di pena, per il computo dei quali hanno rilievo anche gli sconti derivanti dalla liberazione anticipata.
È previsto anche il lavoro all’esterno (art. 21 ord. pen.) al quale i detenuti ergastolani possono essere assegnati dopo che abbiano espiato almeno 10 anni di pena, ferma restando la riduzione applicabile ex art. 54 ord. pen.
L’accesso al beneficio della semilibertà, invece, è disciplinato dall’art. 50 ord. pen. che dispone che per i condannati all’ergastolo la concessione di tale regime è subordinata all’aver già scontato 20 anni di pena. Tale modalità di esecuzione della pena prevede che il detenuto possa trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.
Da ultimo la liberazione condizionale (art. 176 c.p.), definita dalla giurisprudenza come una “temporanea e finale messa alla prova”, permette all’ergastolano, dopo 26 anni di pena – considerate le dovute riduzioni – di veder sospesa la restante parte di pena ancora da scontare, sempre che decorso il termine di cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale non siano sopraggiunte cause di revoca della misura. Il provvedimento viene emesso a condizione che il detenuto, durante l’esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. L’accesso a tale misura è altresì condizionato all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, tranne il caso in cui il soggetto sia indigente.
Totalmente differente è la disciplina per l’ergastolo “ostativo”.
L’art. 4 bis ord. pen. prevede che i condannati per i delitti indicati al primo comma, ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari ed alle misure alternative alla detenzione, debbano collaborare con la giustizia ex art. 58 ter ord. pen., unica prova dell’avvenuta rescissione del legame con il sodalizio criminale.
Per collaborazione con la giustizia si intende il comportamento del condannato che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero il concreto aiuto reso alla polizia o all’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati (art. 58 ter ord. pen.).
Accanto a tale ipotesi, la norma prevede al comma 1 bis che a favore dei detenuti per uno dei delitti di prima fascia possono disporsi i benefici dei permessi premio, lavoro esterno e liberazione anticipata, nel caso di “collaborazione oggettivamente irrilevante”, sempre che venga accertata l’insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata ove ad essi sia applicata la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. (ossia l’aver riparato il danno, anche successivamente alla sentenza di condanna) ovvero una circostanza attenuante comune (art. 114 c.p.) o si sia trattato di un concorso in un reato più grave di quello voluto (art. 116 c.p.).
La Corte Costituzionale con sent. n. 357/1994 è intervenuta sull’art. 4 bis, comma 1 bis, ord. pen. equiparando all’utile collaborazione ex art. 58 ter ord. pen. anche la collaborazione impossibile, la quale ricorre nell’ipotesi in cui il condannato per i delitti di cui al comma 1 art. 4 bis ord. pen. abbia partecipato al fatto criminoso in modo limitato e questo sia stato accertato nella sentenza di condanna nonché nel caso in cui i fatti e la responsabilità siano accertati con sentenza irrevocabile, ferma restando la necessaria assenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la compagine criminale.
La collaborazione nelle sue diverse sfaccettature diviene, dunque, per il condannato l’unica modalità per non vedersi soggetto al “fine pena mai”.
Proprio per questo motivo questa disciplina ha suscitato forti critiche e dubbi di legittimità costituzionale.
Contro l’ergastolo ostativo si era espressa nel 2019 anche la Corte europea per i diritti umani (CEDU), che aveva invitato l’Italia a rivedere la legge, ritenendola in contraddizione con la Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce “trattamenti inumani e degradanti”.
Il caso in esame riguardava Marcello Viola, condannato all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi.
Per sei anni Viola era stato sottoposto al regime del cosiddetto carcere duro regolato dall’articolo 41-bis, poi sospeso. Una volta uscito dal 41-bis, Viola aveva chiesto un permesso premio e la possibilità di accedere alla liberazione condizionale.
Le sue domande erano sempre state rifiutate, proprio sulla base dell’articolo 4-bis: Viola non aveva mai collaborato (anzi, si è sempre dichiarato innocente) e, dunque, per l’ordinamento penitenziario italiano non poteva accedere ad alcun beneficio o alla liberazione condizionale.
Viola si era infine rivolto alla Corte europea dei diritti umani, che si era pronunciata a suo favore e contro l’ergastolo ostativo.
Contro quella prima sentenza il governo italiano aveva presentato ricorso alla Grande Chambre della Corte. Nella sua richiesta il governo aveva spiegato come la mafia sia la principale minaccia alla sicurezza nazionale, europea e internazionale, e aveva sottolineato che l’ergastolo ostativo fosse stato dichiarato conforme ai principi costituzionali dalla Corte Costituzionale.
Investita della questione, la Corte ha precisato che, sebbene le scelte di politica criminale prese dal legislatore italiano non siano sindacabili a livello europeo, eccetto nel caso in cui esse contrastino con i principi della Convenzione, tuttavia, la previsione che l’accesso ai benefici per gli ergastolani ostativi sia subordinato alla collaborazione con la giustizia, altera l’equilibrio tra collaborazione e pericolosità sociale del condannato.
Infatti, se è vero che non sempre la collaborazione con la giustizia dimostra l’effettiva rottura del legame del reo con il sodalizio criminale, del pari la mancata collaborazione non è prova della persistenza di contatti con la criminalità organizzata.
Non di rado il condannato non collabora con la giustizia per timore di ritorsione su di sé o sui suoi familiari ad opera della compagine criminale ovvero per evitare di aggravare la sua posizione processuale.
La Corte afferma di riconoscere la pericolosità dei reati individuati dall’art. 4 bis ord. pen. ma allo stesso tempo di non poter giustificare la violazione dell’art. 3 CEDU che proibisce “trattamenti inumani e degradanti” o l’esclusione dalla grazia presidenziale e dalla sospensione della pena per motivi di salute.
Conclude, quindi, dichiarando illegittimo l'ergastolo ostativo per contrasto con l’art. 3 CEDU poiché Il principio della dignità umana che discende dal citato articolo impedisce di privare le persone della propria libertà senza garantire loro, allo stesso tempo, la possibilità di poter riacquistare, un giorno, tale libertà.
La giurisprudenza italiana ha preso più volte posizione in materia di ergastolo ostativo.
Fino al 2013, la Corte Costituzionale ha sempre respinto le questioni di legittimità costituzionali dell’istituto, ritenendo che gli ergastolani che rifiutavano di collaborare con la giustizia, esercitavano una propria “scelta” e non erano dunque esclusi definitivamente dai benefici.
Nessun automatismo quindi, bastava in fondo che il condannato decidesse di cambiare “idea” sulla volontà di collaborare con la Giustizia per accedere ai benefici di legge.
Un cambio di orientamento si è avuto solo nel 2018 allorquando la sentenza del 21 giugno n. 149/2018 della Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 58 quater ord. pen. che prevedeva che, nel caso in cui un soggetto fosse stato condannato all’ergastolo per aver commesso il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289 bis c.p.) ovvero per sequestro di persona a scopo di estorsione a seguito del quale ne fosse derivata la morte della vittima (art. 630 c.p.), il condannato non era ammesso ad alcuno dei benefici di cui all’art. 4 bis comma 1 ord. pen. prima dell’effettiva espiazione di almeno 26 anni di pena.
La Corte, in quella occasione, ha ritenuto che la norma fosse in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) ma soprattutto il finalismo rieducativo della pena, affermando che “la norma censurata riduce fortemente, per il condannato all'ergastolo, l'incentivo a partecipare all'opera di rieducazione, in cui si sostanzia la ratio dello stesso istituto della liberazione anticipata. Infine, il carattere automatico della preclusione temporale all'accesso ai benefici, impedendo al giudice qualsiasi valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato, in ragione soltanto del titolo di reato che supporta la condanna, contrasta con la ineliminabile finalità di rieducazione della pena, che deve sempre essere garantita anche nei confronti degli autori di reati gravissimi”.
Successivamente, nel 2019, con la sentenza n. 253, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui non prevedeva che i condannati alla pena dell’ergastolo ostativo per i reati di cui all’art. 416 bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste non potevano accedere al beneficio penitenziario dei permessi premio in mancanza di collaborazione con la giustizia ex art. 58 ter ord. pen. “allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”.
La Corte ha ritenuto che, mentre è corretto "premiare" la collaborazione con la giustizia prestata anche dopo la condanna – riconoscendo vantaggi nel trattamento penitenziario – non è invece costituzionalmente ammissibile "punire" la mancata collaborazione, impedendo al detenuto non collaborante l'accesso ai benefici penitenziari normalmente previsti per gli altri detenuti.
Questa pronuncia ha minato irreversibilmente la presunzione assoluta di pericolosità del reo che rifiuta di collaborare con la Giustizia ed ha aperto alla possibilità che il giudice compia una valutazione caso per caso.
Nella seduta del 15 aprile, la Corte Costituzionale è tornata sull’argomento, valutando nuovamente la sua compatibilità con l’articolo 3 della Costituzione per comprendere se considerare l'ergastolo ostativo incostituzionale.
In attesa dell’ordinanza, l’Ufficio stampa della Corte ha fatto sapere che la Corte ha anzitutto rilevato che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione che sancisce l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e con l’art. 27 che prevede il reinserimento sociale come obiettivo della pena - cui si fonda la ratio dell’intero sistema sanzionatorio- nonché con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In base a questa posizione infatti, il regime costituirebbe una vera e propria violazione dei diritti dell'uomo.
L'ergastolo ostativo, dunque, creerebbe distinzioni sulla base dei reati commessi e impedirebbe un adeguato reinserimento sociale visto che prevede scenari in cui il detenuto non sia mai riammesso nella società.
Tuttavia, la Consulta, si è resa conto che “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”, pertanto ha stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi.
Non ci resta che aspettare un intervento del Legislatore.
Il D.L. contiene una serie di misure urgenti riguardanti la concessione di benefici ai detenuti incarcerati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia, nonché misure legate agli obblighi vaccinali per SARS-COV-2 e misure relative alla prevenzione ed al contrasto dei raduni illegali (risulta noto il dibattito pubblicizzato dai media rispetto alla questione dei cosiddetti rave party, ad esempio).
Il testo del Decreto raccoglie l'appello rivolto al Parlamento in merito alla decisione n. 97/2021 emessa dalla Corte Costituzionale sulla concessione di benefici penitenziari ai detenuti condannati per gravi reati e che rifiutano di collaborare con la giustizia. Il decreto prevede criteri rigorosi per garantire il rispetto delle raccomandazioni della Consulta e allo stesso tempo impedire che i soggetti ancora legati al contesto criminale di provenienza accedano alle misure premiali. La proposta di legge, riguardante l'articolo 4bis dell'ordinamento penitenziario, già approvata dalla Camera dei Deputati nella scorsa legislatura, è stata ripresa nel testo.
Più nel dettaglio, il decreto stabilisce che, per concedere benefici ai detenuti condannati per reati ostativi, non sarà sufficiente soltanto una buona condotta carceraria o la partecipazione ai programmi di trattamento, ma saranno richiesti anche il risarcimento dei danni provocati e requisiti che escludano la presenza di collegamenti con l'associazione criminale o il rischio di ripristinarli.
In parole povere, non sono previsti automatismi e verrà introdotto un processo rafforzato per la valutazione delle richieste, con l'obbligo per il giudice di sorveglianza di acquisire pareri necessari. Rispetto alla liberazione condizionale, sarà possibile richiederla solo dopo aver scontato 30 anni di pena.
Avv. Angela Fersini
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